29 novembre 2011

Ne hai fatta di strada bimba...

Poi ritorni e trovi nella cassetta della posta la lettera della scuola elementare che ti convoca per Lee che inizierà a settembre.

Prima elementare.

E niente, mi sembra che tutto stia andando molto più velocemente di quanto io sia in grado di comprendere.

26 novembre 2011

Roma #3 - Loro, noi, io

Da questo viaggio a Roma mi porterò a casa come sempre mille cose. Ne voglio conservare tre, qui, come souvenir di un viaggio che voglio ricordare.

Loro: il rumore dello stupore
I bimbi non aspettano altro che qualcuno racconti loro una storia. E di storie legate alle opere d’arte, siano esse architettura, scultura, pittura o musica, ce ne sono mille. E allora si mettono lì buoni e ascoltano.
La storia della facciata del Borromini in Piazza Navona.
La Paolina Borghese del Canova che “quel lenzuolo è di marmo davvero” e Apollo e Dafne e tutto il museo di Villa Borghese.
La storia del cavallo del Vittoriano e la cena all’interno della sua pancia cava.
E li vedi sgranare gli occhi per la magia del colonnato di Bernini a San Pietro, e ti ricordi il tuo stesso stupore bambino di fronte a quel colpo al cuore, la prima volta che vedi sparire quattro file di colonne in una sola da quel punto preciso della piazza.
E ti stupisci con loro. Di nuovo.
Lo stupore ha quel rumore specifico, quello di un respiro breve e forte, che aspiri l’aria, che non ci puoi credere e cerchi di trattenere un’ultima volta l’emozione, mentre gli occhi si aprono sempre di più, ecco quel rumore lì.
Ti puoi dire giovane finché sei in grado di riprodurre genuinamente quel rumore lì.

Noi: Lara Coeli
125 gradini più in alto. Seduti lassù. Un’altra volta. La città, gialla, metri e metri più in basso. Ciao tu. Sono giorni che tra me e lui c’è sempre l’obiettivo della sua macchina fotografica. Mi mostra una foto.
Io. Sfondo di cielo bianco. Sorrido e non guardo. La mano destra, delicata, nel gesto abituale di spostare dietro l’orecchio una ciocca di capelli che non è più lunga da tempo. La mia espressione tipica, una ruga verticale tra le sopracciglia, strafottente, pensosa, felice.
- È bellissma questa foto, ma come fai?
- È perché io ti vedo così. Sempre.
Io scrivo. Lui fa foto. Ecco, vorrei scriverlo come Lui sa fotografarmi.
Ma non sarebbe questa la sede.

Io: cerchio
Nelle partenze verso casa c’è sempre un che di crepuscolare. Mi è rimasta attaccata la sensazione di chiusura di un ciclo che avevo inaugurato a Roma a metà marzo. Una fase, un cerchio perfetto. L’ansia di non capire se esserne contenta o nostalgica. Il non sapere se un cerchio che si chiude sia una cosa che ho acquisito o che ho perso. La paura di lasciare indietro qualcosa di cui prima o poi avrò nostalgia.
La sensazione di essere immensamente uguale e immensamente diversa dal momento prima di partire.
“Felice per sempre. Per sempre un po’ scomoda”.


Dai, ormai lo sapete, l’avete riconosciuta tutti. Bravi, sì, lei.

Roma #2 - Cartier Bresson non abita qui

In questa vacanza ho dovuto prendere atto e arrendermi ad una grande evidenza: io e la fotografia non siamo fatte della stessa sostanza. Il che è un peccato, perchè ritengo di avere un occhio moooolto fotografico, e di saper dare la giusta attenzione alla luce e ai colori.

Io so sempre perfettamente come vorrei una foto, il taglio da darle e l’effetto finale che vorrei ottenere. Solo che tra la mia mente e la mia mano c’è solo l’impostazione automatica, quindi le mie foto, quando vengono ferme, difficilmente risultano come le immaginavo prima.
“Eh, cosa vuoi, non sono fortunata”. Questa è la mia spiegazione.

L’esempio supremo è una foto che ho scattato io all’interno del Pantheon e che verrà appesa al centro del salotto a monito della mia inadeguatezza fotografica. Quello che volevo ottenere era un cerchio di cielo azzurrissimo con le nuvolette bianche che si intravedeva dal foro di nove metri di diametro all’apice della cupola [- Maddai? Avrei detto meno, che so, tre metri al massimo. - È in alto Lara, sai, la prospettiva, quelle cose lì].
Nelle mie intenzioni si sarebbe dovuto vedere parte della cupola interna, il foro, il cielo azzurro a stacco, che uno non ci crede che sia novembre con un azzurro così, le nuvole e con la giusta dose di culo anche qualche volatile, che fa tanto Jonathan Livingstone (lo stereotipo è dentro di me e ci sguazza anche, sì).

Il risultato invece, subito ribattezzato “The Hole”, è una palla bianchissima al centro di una foto completamente nera.
- Puoi sempre spacciarla per la luna. Come luna rende.
- Cosa vuoi, non sono fortunata.
- La fortuna non c’entra. Studia, Lara.
- Ma dai, tu guarda, un gabbiano.

Roma #1 - a-Roma-terapia

La casa della zia Esse è una storia da raccontare agli amici fidati.
La casa della zia Esse ha il profumo dei mobili antichi e della biancheria pulita. Ha luce gialla che entra da numerose finestre, lasciate senza tende per non perdersi mai un angolo di cielo nelle infinite sfumature che assume da giorno a sera.
La casa della zia Esse è terapeutica da sempre. Mi aiuta a prendere distanze, a mettere a fuoco, a ritrovare colori, a definire la mia posizione nello spazio, come se fosse una mappa e io il puntino rosso con sopra scritto "Lara tu sei qui" e la tua posizione è chiara rispetto a tutto il resto.
La casa della zia Esse mi illumina e mi fa stare bene. Sempre. Da sempre.

19 novembre 2011

18 novembre 2011

(S)connessa - sottotitolo: "butta via lo specchio che c'è il mondo da guardare" (cit.)

Allora, consideriamo tutto.
Io non mi sono mai pensata geek, reputo di essere mediamente connessa, ma non eccedo in competenza su tecnologia e informatica. Però.
Ho quattro indirizzi diversi di posta elettronica oltre a quello del lavoro.
Una pagina facebook personale di cui avrei fatto volentieri a meno, ma non avrei potuto aprire quella del blog.
L'account twitter.
Quello di anobii, quello sportivo, e una serie di altre cose.
Ci sono skype e msn.
Il telefono, che non è più solo telefono ma è anche smartphone.
Quindi posso controllare tutte quante le cose qui sopra anche da lì.
E ci sono le chiamate, ma tu pensa, il telefono serve anche a quello.
E ci sono i sms (antica!).
E c'è whatsapp e quindi puoi chattare, ovunque tu sia.

Ecco a me in tutto questo prende un'ansia diffusa che non riesco ad identificare.
Cioè, da una parte mi viene l'ansia del poter essere sempre rintracciata o anche semplicemente "tracciata", che chiunque possa controllare in ogni momento cosa sto facendo, dove sono, che libro ho letto, quanto ho corso, con chi lavoro.
Ansia.
Dall'altra ho paura di perdermi qualcosa: che non ho ancora capito da che parte della vetrina voglio stare. Cioè, mentre sto dietro a tutte queste social cose, non è che magari mi sto perdendo altro?
E viceversa, mentre vivo la mia vita, cosa sta succedendo nel mondo virtuale legato a me?
Insomma la vita è una, no?, e com'è allora che ho la sensazione di arrancare sempre, da quando sono così connessa?

Ogni tanto mi sembra solo di avere più canali su cui poter constatare che parlo parlo e faccio poco, ma di quel poco devo lasciare mille tracce altrimenti non vale niente.
Ogni tanto ho la sensazione che mi sto perdendo tante cose, mentre me ne sto con la testa dentro il telefonetto o il computer. Allora valuto, pondero, e cerco di dosare.
Ma io sono eccessiva e il sovradosaggio è la mia arte, in un senso o nell'altro.
E comunque sono qui a scriverne, sicchè.
Sono un paradosso.

Comunque è deciso: per una settimana o più farò a meno dei miei mezzi virtul-sociali.
Mica così, gratis.
È solo che parto e vorrei guardare fuori dal finestrino, come facevo tempo fa.
L'ultima volta che è capitato, dopo un primo momento di smarrimento, ci ho ampiamente sguazzato.
Immagino anche questa volta.
Vi farò sapere.

16 novembre 2011

La (de)costruzione di un nemico

Non credo ci sia persona al mondo che ammetterebbe di essere cattiva. Eppure tutti ci imbattiamo in soggetti che non possiamo che definire così. Sono certa che se lo chiedi a loro, "cattivo" non è mai nelle prime tre parole che userebbero per descriversi. Cattivo è sempre una percezione esteriore.
Io credo però che ci siano persone che si crogiolano nel loro riuscire benissimo a fare i bastardi. Ma non direbbero mai di esserlo.
In ogni caso, questo intro è per dire che io non sono una persona cattiva. Non sono neanche bastarda. Probabilmente non sono abbastanza intelligente per riuscire ad esserlo davvero.

La cattiveria in me non nasce mai spontanea. Nasce unicamente in risposta a.
Per diventare cattiva io ho bisogno di un nemico.
E di potenziali nemici è pieno il mondo.

Quanto è stronzo e spocchioso il controllore che ti chiede il biglietto con quell'aria di chi spadroneggia in un territorio che considera suo? Quanto detesti l'impiegata dell'INPS che dall'alto del suo lassismo non riesce mai a darti le risposte di cui hai bisogno? E la mamma fuori dall'asilo quella che la sua bambina è meglio di tutte, levatevi che passo io? E quello con la macchina che vale quanto casa tua per la quale si sente in diritto di fare quel ca#*o che gli pare per strada? La nuova fidanzata del tuo ex che "mi ha guardato in quel modo, 'sta stronza"? La signora che ti vede che devi pagare solo un litro di latte e lei ha la spesa divisa tra due carrelli ma non c'è verso che ti faccia passare? E l'ignoranza, eh, l'ignoranza in tutte le mirabolanti forme che può assumere?
Certo, l'interpretazionismo è fondamentale per la costruzione di un nemico. Bisogna essere portati a pensare che quella persona "ha fatto così perchè pensa così". E questa è una cosa per cui io sono campionessa mondiale. Quindi se voglio trovare un nemico da qualche parte, detto fatto, eccolo lì, pronto per la lotta. Il risultato di questa costruzione fantastica del nemico è che difficilmente ti crei nemici sui quali non puoi avere la meglio. Ti piace vincere facile, quelle cose lì.

Ma i nemici veri, cioè quelli che non costruisci tu, quelli che ti sbarrano la strada realmente, quelli con cui la lotta è feroce e non te la sei cercata, di solito non ti avvisano prima di spezzarti le ossa. Te li ritrovi lì, inaspettatamente, e puoi cercare di difenderti come meglio credi, ma non riuscirai comunque ad uscirne indenne. Perchè quelli veri non ti chiedono il permesso, non hanno alcuna accortezza, arrivano, sparano, e tu puoi solo contrattaccare o schivare i colpi.

A volte invece lo sai.
Sai che andrai incontro a situazioni che implicano una parte di lotta armata, di schieramento di forze, di armi più o meno spaziali. Perchè qualcuno ti ci ha messo, lì, proprio in quel punto della strada, proprio in quel momento preciso.
E ti prepari.
E ti armi.
E ti trinceri dentro i tuoi fortini difensivi.
Ti dici pronta alla battaglia, ad affrontarli sul terreno di gioco, e ti senti forte, e potresti ruggire, ché nessuno ti potrà scalfire, hai le tue sicurezze, ci sei tu su quel terreno e Braveheart non è niente al confronto, e sei pronta, e respiri, e hai il coltello tra i denti, i muscoli scattanti, "non fa male, non fa male", e la lingua biforcuta.

Ecco.
Qual è la cosa più spiazzante che può accadere a questo punto?
Che tu ti aspetti il Nemico e arriva PollyPocket, e ti ritrovi armata fino ai denti per una battaglia che non sai più combattere. Perchè non sei una cattiva "naturale", e non colpiresti mai chi è arrivato senza volontà di ferirti.
A quel punto, picco basso. Perchè l'adrenalina che avevi fino ad un minuto prima ce l'hai ancora tutta in circolo e non sai come buttarla fuori, perchè hai deposto le armi ma i muscoli guizzano ancora, perchè se parli sputi sarcarmo e non è il caso, quindi taci. Non sei più armata, non sei più cattiva, ma non sei ancora tornata tu. Disorientata. Smarrita. Perchè la domanda è: che cosa ci fai armata fino ai denti quando chi ti doveva colpire è arrivato con i fiori? Dentro ruggisci ancora, ma è improvvisamente tutto privo di senso.

A quel punto ci sono solo due cose che si possono fare, risolutive.
Ballare.
E bere.
Non necessariamente in quest'ordine.

Poi un giorno parliamo anche dei nemici che si nascondono dentro alle persone che non ti aspetteresti mai. Il male che ti riescono a fare questi, nessuno mai, perchè attaccano da dentro, loro. Li possino.

14 novembre 2011

Quei pomeriggi che piuttosto la miniera, grazie

Pomeriggio - casa Zeta:
N. 2 soggetti maschili, uno alto e uno basso, spalmati sul divano col lamento inserito in modalità turbo-boost che frignano cercando di attirare l'attenzione di
N. 2 soggetti femminili, una alta e una bassa, che oscillano tra l'indifferenza e l'esasperazione, ché il crocerossismo compiacente non riusciamo proprio a trovarlo da nessuna parte.
Il sesso debole, ci chiamano.

Sì insomma, due maschi ammalati...
Davvero.
Parliamone.

13 novembre 2011

Smacchiamo (giaguari e non solo)

- Secondo me Roo non va all'asilo. I suoi grembiulini denunciano che in realtà lui lavora in una friggitoria.
- Impara l'arte e mettila da parte. Potrebbe tornargli utile.
- Certo, il fish&chips è il futuro.
- Ma non esiste un colore meno sporchevole? Che so, la classe dei neri? I piccoli all blacks?
- Troverebbe il modo di sporcarsi lo stesso.
- Gesso?
- E farina.
- La risposta è dentro di te, Lara, ascoltala: sta dicendo ras-se-gna-zio-ne.
- No, sta dicendo a-pe-ri-ti-vo. Now.

Cammino

Questo novembre che sembra marzo sta regalando giornate che non avrei creduto. Fredde ma con un cielo azzurro e una luce invernale che ti tagliano in due, un sole che ce la fa ancora, che marca forte le ombre sull'asfalto, che fa venire voglia di fare programmi.
Cammino molto.
La corsa ha spostato la mia prospettiva spazio-temporale e se non sto correndo mi sembra di essere praticamente ferma. Ma non è così. I miei passi sono veloci, seguono il ritmo della musica nelle mie orecchie, il movimento apre la mente, le cose prendono il loro posto, si sistemano con rassegnazione o con serenità, si placano, come i fiocchi di neve in quelle sfere di vetro, souvenir di viaggi che non ho fatto.
Cammino.
Capisco.
Schiaccio foglie che cedono croccanti sotto le mie suole, le sento nei momenti di musica bassa, la loro fragilità la percepisco più al tatto - smorzato dalle scarpe - che all'udito.

Guardo in su.
Cerco case con le travi a vista, muri colorati, luci calde. Cerco nuvole dalle forme strane. Cerco la luna in quel cielo azzurro, a volte la trovo e non capisco se non se n'è ancora andata o se è già tornata.
Ricordo e progetto, quando sto bene in egual misura, quando no i ricordi si prendono tutto lo spazio e non riesco a costruire nulla di nuovo.
Faccio respiri profondi.
Allora riprendo a camminare, con il sole che fai fatica a tenere gli occhi aperti e il freddo che li fa lacrimare un po', e respiro evanescenti nuvolette di fiato, e capisco, e sistemo, e continuo a camminare fino a che non mi torna la voglia di fare progetti.

Cammino. Fino a casa.
Che è casa per un milione di motivi, come quattro piedini nudi che fanno a gara per venire ad aprirmi, una carezza sulla guancia infreddolita, un sorriso e un bicchiere di vino ad aspettarmi.
Quando sto così e non posso farci nulla posso sempre camminare.
O correre.

O fare una torta di mele e cannella, certo.

11 novembre 2011

Allora quelli con la penna rossa si mettano qui sulla destra, quelli con l'indice puntato qui davanti, gli sputasentenze gratuiti al centro che li voglio vedere bene, quelli scappati apposta dal CERN li teniamo lì in fondo, e poi ci sono quelli col paletto

E niente, mi è arrivata addosso una cosa che mi ha fatto passare giorni a valutare l'opportunità di tenere questo blog. Perché scrivere qui in un certo senso mi mette in vetrina e allora da fuori ci si può sentire legittimati a puntare il dito, neanche fossi uno di quegli orribili pupazzi infeltriti a cui vai a sparare alle giostre - non lo sono:  sono più magra, infinitamente meno pelosa, e decisamente molto ma molto meno coccolosa.
Certo questo blog è scritto in prima persona e, guarda un po', quella prima persona sono io, maddai. Ma qui dentro c'è solo una parte della mia vita, presente o passata, che è quella che mi va di raccontare e condividere. Si tratta di una parte minima che oltretutto viene descritta in maniera romanzata: nulla di propriamente inventato, ma tra la vita reale e quello che si legge, ecco, c'è comunque differenza.
Serve davvero specificarlo? Serve.

Le critiche ci stanno, eccome, si può criticare qualunque cosa ci sia scritta qui, per il contenuto, per la forma, perché offende, perché invento le parole, perché i titoli sono troppo lunghi, perché la sindromepremestruale, perché il verde è troppo verde e l'azzurro troppo poco azzurro, perché salamdonnacosa.
Ma finché non si ha l'immenso piacere di constatare nella vita quotidiana che carattere di merda io abbia realmente, ecco, eviterei di trarre conclusioni perché non sono certo le quattro cose che si leggono qui dentro a poter dare a chi legge la presunzione di conoscermi.

Quando in questo blog ci sarà scritto tutto di me (tipo, MAI?) allora ne riparleremo, eh.

6 novembre 2011

Lezione di musica - (perchè è di musica che parliamo... o no?)

Nella musica classica, il canone è una composizione contrappuntistica che unisce ad una melodia una o più imitazioni. Ce l'abbiamo presente tutti, il concetto è quello di Fra Martino dove sulla linea melodica di base si sovrappone la stessa linea melodica a più riprese, dando l'idea di una costruzione complessa anche laddove di fondo c'è un motivetto elementare.

Se vogliamo andare su forme più alte di canone c'è quello di Pachelbel, in cui la linea del basso resta sempre costante mentre la melodia che gli viene costruita sopra diventa via via più complessa fino al finale, in un crescendo di intensità e colore per poi tornare alla calma.
Al piano la mano sinistra fa sempre la stessa cosa, gli stessi arpeggi che costituiscono il tappeto armonico su cui la destra fa i triplocarpiati del caso per dare vita a linee melodiche sempre più ricche.

Il canone ha un suo fascino, il fascino delle cose certe, ti dà la sicurezza di una strada tracciata, la certezza che non finirai mai fuori dal seminato, che non ci saranno sorprese, che quella via è sicura, che ci si può camminare sopra tranquilli.
Però.
Canone significa anche che ok, si possono fare tanti voli pindarici ma di fatto si è legati a quell'armonia e quindi tanto lontano da lì non puoi finire, e che ogni nota sbagliata, ogni dissonanza verrà notata subito, perché su una linea così semplice non puoi stonare, non ti puoi allontanare, puoi volare sì ma nei limiti dell'impianto armonico che ti fa da base. Cioè la base ti dice come, quando, di quanto, e dove puoi muoverti.

Aiuto.
Noia.

Il canone non fa per me.
Che le dissonanze mi servono, le disarmonie mi aiutano, le modulazioni sono il mio respiro, il contrappunto inferocito di pause e suoni, di battere e levare per me è fondamentale. Mi dà il senso dell'imprevedibile, dell'inquietudine, dell'inatteso, del sospeso e mi serve per apprezzare il ritorno a melodie musicalmente amiche e mai banali.

Sonata, minimo, io.
O concerto.
O sinfonia.
Poi un giorno ne parliamo.

5 novembre 2011

'giorno

Dopo averci svegliato alle sei ed essere stato rimesso a letto, in cucina dove io e Lui stiamo facendo colazione in modalità "occhi-di-gatto", cioè senza spostare neanche l'aria che respiriamo per non creare il minimo rumore, entra Roo, imbronciatissimo.
- Mi avete svegliato.
- No, bbello, sei tu che hai svegliato noi.
- Che carattere che ha. Trova sempre qualcuno a cui dare la colpa.
- Ha parlato quella di buonumore...
- Perchè?
- Non più di cinque minuti fa, sei entrata qui dentro dicendo "vi odio tutti".
- Ah già.
- Buongiorno anche a te.
- Vado a correre.
- Fai così.

3 novembre 2011

"Spesso ci si imbatte nel proprio destino sulla strada presa per evitarlo" (le grandi verità - Kung Fu Panda edition)

E niente, poi lo capisci in un attimo.

Che la vita non te la giochi mai tutta in un momento a prescindere dalla misura del tuo investimento in esso. Che di momenti è pieno ogni giorno, che ci sono delle scelte da fare e che vanno fatte, che ogni tanto hai la sensazione di arrancare come a cercare di tenere su un muro di sabbia asciutta che frana da tutte le parti ma il segreto sta nel continuare a provarci o nel dargli una forma nuova.

Che la sfortuna esiste ma esiste anche il suo contrario, che bisogna sempre rilanciare, che quello che ti sembra un'eternità in realtà è un battito di ciglia, che nelle strade che fino ad un momento potevano essere definite alternative potrebbe esserci un'idea per una nuova via.

Che la vita a volte è proprio stronza e a volte meravigliosa nella sua capacità di sorprenderti, che bisogna continuare a credere al sogno se hai la fortuna di averne uno solo - immenso, cercando di fare in modo comunque che tale sogno non ti renda mai completamente cieca, che la gente che ti vuole bene sarà con te e troverà il modo per adattarsi ad ogni tua nuova forma, che siamo creature mutanti, grazieadio, capaci di immensi slanci, sogni, schianti.

Che ci si fa male, tantissimo, ma ci si rialza perchè non se ne può fare a meno e con gli occhi ancora lucidi si alza la testa e si cerca un punto lontano a cui tendere, perchè guardarsi i piedi non è interessante e siamo fatti per andare, per provare, per fallire, per riuscire, in un dosaggio alternato e spesso sbilanciato e pazzo, ma c'è sempre dentro un po' di tutto, si tratta solo di saperlo leggere.
Che a volte si è stanchi e si abbassa l'asticella della soddisfazione, e allora ci si fanno andare bene cose che non, bisogna concederselo, bisogna stagnare per un po' prima di tornare a muoversi.

Che il fallimento è praticamente certo, ma la forza sta nel riprovarci ancora e ancora.
Siamo esseri speciali, siamo creature coraggiose, inseguiamo sogni armati soltanto di entusiasmo e lavoro. Cazzo, che fatica certi giorni.

Ho capito tutto questo dentro una pizzetta. Devo assolutamente informarmi sull'impasto.

2 novembre 2011

Lo zainetto (marrone)

Provo a spiegare a Lee che deve ragionare con la sua testa. Mica facile. Cioè, mica facile su certe cose perchè in realtà quando si tratta di cose che reputa importanti non c'è nessuno che possa smuoverla da lì, a prescindere da amiche, maestre, mamma, parentame vario.
Ma per certe altre, aiuto.

Scuola di danza - interno - sera.
Si acquista l'abbigliamento per la lezione.
È imposto e obbligatorio: body nero, calzamaglia rosa, cache-coeur rosa, scarpette rosa. Unica opzione: scegliere tra una borsone grigio perla con il disegno stilizzato di una ballerina in rosa (il classico disegno stilizzato di tutte le classiche scuole di danza classica dell'universomondo classico) o uno zainetto.
Uno. Zainetto. Marrone.
Io non ho nulla contro il marrone, a parte il fatto che sembra ci voglia coraggio a chiamarlo col suo nome.
Infatti.
- Maddai, non è marrone, è biscotto.
- Sì, infatti è nocciola.
- Appunto, è moka.
- O cacao?
- Naaa è cangiante, sui toni del tabacco.
- Con una venatura color whisky.
[ecco io whisky e tabacco a questo punto volentieri grazie].

Lee sceglie decisa la borsa grigia. Figurarsi. Lo zainetto marrone non sarei riuscita a farglielo portare neanche a ridipingerglielo d'oro. Però.
N. e G., le sue amiche, quelle dell'esclusione, quelle che continuo a meditare di rapare a zero un giorno o l'altro, ecco loro due... vedo le loro mamme che confabulano per mezz'ora sulle qualità pratiche dello zainetto rispetto al borsone.
- È molto più facile da portare per le bambine.
Peccato che rientrino entrambe nella categoria di madri che impediscono alle loro ballerine di fare qualsiasi sforzo, fosse anche solo quello di portare il peso di due scaldamuscoli e un paio di scarpette in pelle rosa numero 28.
Quindi N. e G. zainetto.
(cantilena) "Noi abbiamo lo zainetto, noi abbiamo lo zainetto".
Che, ricordo, è marrone.

Niente, lo zainetto diventa improvvisamente l'oggetto del desiderio di Lee.
Arringo per quindici minuti buoni sul ragionare con la propria testa, alternando allegorie campestri a base di greggi di pecore e pastori, a citazioni casuali da Braveheart e Erin Brokovich, e ci aggiungo anche qui e là una spolverata di "le possino, 'ste stronzette", qualche manciata di Virginia Woolf che non fa mai male, e credo di aver finito decretando che no, non è lupus, mentre Roo mi lanciava ragnatele in alternanza a baci.
Siamo arrivate al compromesso che tiene il borsone grigio, e se tra una settimana sente ancora di volere lo zainetto marrone, io non mi opporrò, però, testuale, "che due maroni".

Lui rientra dal lavoro, pre-allertato telefonicamente dell'emergenza "borsa della scuola di danza".
- Lee, allora, raccontami, cos'è successo?
- Eh, niente... Sono una pecora.
- Beeeeh.
- Ahahah! Beeeeh.

Ecco come si sdrammatizza in un attimo la mia deliziosa arringa sull'importanza dell'indipendenza intellettuale.
Un belato, e passa tutto.

1 novembre 2011

De gustibus

- Mamma, questo piatto non è buono, è squisito. Sei p(r)op(r)io b(r)ava, sai?

[E notare che sta parlando di un risotto zucchine&zafferano fatto con il riso basmati, chè la dispensa piange e non ho avuto modo di fare la spesa].

Poi, dice, gli perdoni qualunque cosa.
A uno che fa uscite così, gratuite, cosa gli vuoi dire?

[maglietta subito] Nobody loves me as much as Roo.